L’atleta francese è stato Campione del mondo in costante e ha gareggiato per anni ai massimi livelli ispirandosi al grande Jaques Mayol. Ora vive in una bella casa sulle colline di Nizza, da dove si vede il mare che tanto ama e dal quale non riesce a stare lontano — di Marcello Pastonesi
Guillaume Nery abita in Francia, a Nizza, all’ultimo piano di una vecchia casa, sulle prime colline dietro la città.
Nel giardino della palazzina c’è un orticello condominiale, dove lui e la sua compagna hanno piantato insalata e pomodori. Sparsi, e un po’ arrugginiti, degli attrezzi da palestra. Una sbarra per le trazioni, dei manubri, un bilanciere.
L’appartamento sembra quello di una coppia di ragazzi. La libreria, fatta con le cassette della frutta, è piena di libri azzurri, tutti sul mare e di souvenir di mari esotici. Anche l’arte sui muri è a tema marino. Barche, pesci.
Arrotolato in parte un tappetino da yoga. Blu sono anche le finestre. Tutte vista mare. Una casa semplice. In linea con il personaggio. Dopo il caffè, chiacchieriamo mezz’oretta.
«I miei genitori mi hanno educato alla vita all’aria aperta. Da sempre. Vicino a Nizza ci sono montagne bellissime ed eravamo sempre in giro a fare gite, a esplorare. Non ho fratelli o sorelle, quindi ero con loro, tutto il tempo. Il Mediterraneo è sempre stato parte della mia vita, ma all’inizio, da bambino, ci andavo solo d’estate, come tutti gli altri. A 14 anni però, sull’autobus, tornando da scuola, un giorno con i miei amici facemmo a gara a chi riusciva a trattenere di più il respiro. E… ho perso. Tornato a casa, però, ho provato ad allenarmi, in camera, sul letto. Il mio amico era riuscito a trattenere il fiato 2 minuti e 9 secondi, mentre io solo per uno e mezzo. Quello è stato il momento in cui ho scoperto i miei limiti e in cui ho iniziato a cercare di superarli. Allenandomi, ho capito che potevo raggiungere i due minuti, poi tre, quattro…
«Poco tempo dopo ho scoperto che vicino a casa c’era un piccolo club di apnea. Anche loro trattenevano il respiro, ma con un motivo: esplorare il mare. Ecco, ho pensato. È la cosa che voglio fare! Mi è sempre piaciuto lo sport e ho sempre guardato ai campioni. Tennis, calcio, ciclismo. Nella mia testa sognavo di diventare un campione. Sapevo di avere le caratteristiche per essere un atleta e di avere la determinazione per allenarmi. E ora avevo trovato lo sport per me».
― Prima gara. Sei lì che stai per tuffarti. Cosa c’era nella tua testa?
«Non ho neanche 18 anni e partecipo a una competizione qui vicino, a Villefranche. Una gara che serve a decidere quale atleta francese andrà a competere contro il campione del mondo in carica, che al momento era un italiano. Gli altri atleti avevano 25/30 anni. Tutti molto più grandi di me. La cosa mi rendeva orgoglioso, perché mi allenavo solo da qualche anno ed ero già lì, in mezzo ai grandi.
Ricordo che sono riuscito a restare calmo e tranquillo. Non ho vinto, ma sono stato scelto tra i migliori cinque atleti di Francia.
«Dopo la gara tutti dicevano che ero bravo e se mi fossi allenato avrei potuto migliorare ancora. Dentro di me in quel momento è nata l’idea di diventare campione del mondo».
― Titolo che è arrivato poco dopo, giusto?
«Si, solo due anni dopo, nel mese di agosto. Quando vuoi provare a battere un record devi annunciarlo un mese prima. In questo modo si genera una tensione enorme. Non l’hai ancora fatto, ma già ne parlano tutti. Quando arriva il giorno, ci sono tantissime persone, barche, telecamere, fotografi. Non è come nelle gare, sono tutti lì solo per te. Una pressione enorme. Poi c’erano, per la prima volta, pure i miei genitori; vedevo che avevano paura e ho dovuto gestire anche quello.
Però, grazie alla mia squadra, e grazie ai miei amici più stretti, che erano presenti, sono riuscito a stare calmo ed è andato tutto bene. Ricordo la sensazione di gioia quando ho raggiunto il fondo. Sapevo di dover tornare ancora su, ma ormai il grosso era fatto. Quando sono riemerso, quando ho respirato, sembrava un sogno. Un sogno che si realizza. La gente impazzita, lo champagne.
«Avevo 20 anni. Ero il più giovane campione del mondo della storia».
― Raccontami cosa si pensa durante un’immersione così…
«Respirare per me è un modo per entrare in contatto con me stesso, con il mio corpo e la mia mente. Mentre scendo sono attentissimo a non sprecare energia. Ho un solo respiro.
Devo gestirlo bene, la cosa più importante è dosare l’energia che uso per muovere le gambe. Dopo i 30 metri posso smettere di nuotare perché da quel punto in poi il corpo affonda da solo. È il momento in qui inizio a sentirmi libero. Comincio a volare in acqua. È un momento bellissimo. Contemporaneamente, però, cambiano le condizioni esterne. Diventano più ostili. La luce diminuisce e aumenta il freddo. E potrebbe arrivare la paura. L’unico modo per riuscire a proseguireè lasciarsi andare e accettare la cosa. Non posso cambiare queste condizioni. Devo accettarle. Rilassarmi.
Cercare di farmi tutt’uno con la profondità e l’acqua.
«Questo è un altro momento particolare. Non ho più riferimenti. Non vedo la superficie, non vedo il fondo. Sono solo una goccia nel mare. È il momento dell’umiltà. Non penso alla gara o al record, al titolo di campione o altro. So di essere vulnerabile. So che sono in un luogo in cui l’uomo non può sopravvivere. Mi godo il momento e l’occasione di essere lì, ma prendo il cartellino del traguardo e torno su. Mentre risalgo inizio a sentire il bisogno di respirare. Le gambe bruciano per l’acido lattico, perché le sto facendo muovere senza l’ossigeno necessario. Poi subentra la narcosi. Non sono più così lucido e fatico a controllare i pensieri. La cosa più importante è rimanere calmi. Guardo solo il cavo, non in alto. Non cerco la superficie.
Vederla ancora lontana può scatenare il panico. Non pensare al futuro, ma concentrarsi sul presente, sui movimenti. Una pinneggiata dopo l’altra. Faccio così per non pensare al bisogno di respirare. Concentrato sul ritmo e sula velocità di risalita. Respirare di nuovo è bellissimo. Ti rendi conto di quanto sia necessario. A volte occorre infatti privarsi di qualcosa per apprezzarne il valore».
― Cosa consigli a un ragazzo che si avvicina a questo sport?
«Beh, oggi è più facile. Ci sono molte scuole, molti club di apnea. La prima cosa è trovarne una. Lì si possono imparare tantissime cose per migliorare in fretta, come allenarsi, come farlo in piena sicurezza.
«Poi, dimenticatevi i record e la performance. L’importante è cercare di entrare in sintonia con l’ambiente, con l’acqua. Non pensare al desiderio di vincere o di raggiungere una certa profondità, ma lasciare spazio alla gioia, godersi il momento, rilassarsi. Senza queste cose, migliorerete un pochino all’inizio, poi però incontrerete un muro, che metterà un limite al piacere, alla motivazione, e contro il quale potreste farvi male».
― Oggi sei il campione che ispira i ragazzi. Tu invece chi guardavi? Chi ti ha ispirato quando hai scoperto questo sport?
«Sicuramente a Jaques Mayol. Mi piace tutto di lui, ma ho capito, e mi ha aiutato molto, quello che ha fatto introducendo lo yoga nella mia preparazione. Prima di lui l’apnea era una questione di forza. Lui ha introdotto l’approccio più naturale. Il rilassamento. L’entrare in contatto con la natura. Lo yoga, in particolare, mi ha aiutato. A un certo punto ho capito che ero troppo rigido. Non riuscivo a migliorare i miei risultati per quel motivo. Senza lo yoga non avrei fatto niente. Poi, di Jaques apprezzo che sia stato un pioniere. Quando ha raggiunto per primo i cento metri, i medici pensavano che non fosse possibile, che sarebbe morto. Lui invece si è fidato delle sue sensazioni. E apprezzo moltissimo il fatto che abbia ottenuto il suo ultimo record, 105 metri nel 1983, a 57 anni. Dimostra che con l’allenamento e con la passione si può invecchiare bene e continuare a fare bene nello sport. Adesso ho 40 anni, ma penso di poter ancora migliorare e ho ancora una gran voglia di farlo».
Non è la prima volta che incontro Nery. Qualche anno fa abbiamo passato tre giorni insieme tra Portofino e Santa Margherita Ligure, mentre girava un video per la Cressi https://www. youtube.com/watch?v=7_EmYIlsDDI.
Ogni volta che finivamo le riprese, Guillaume scappava a fare qualche sport. Una volta è voluto tornare in porto con il sup, una volta ha girato tutto il promontorio di corsa, su e giù per il monte, da Camogli a Santa Margherita, l’ultimo giorno ha scovato un club di CrossFit ed è andato ad allenarsi. E vedevo che quando trovava la cosa da fare era felicissimo, e ci si buttava con entusiasmo. Proprio non vedeva l’ora di muoversi.
A Nizza Guillaume gira per la città con una bicicletta da trekking, consumata, attrezzata con un piccolo portapacchi.
Si capisce che ci ha percorso molti chilometri in giro per la costa e le Alpi francesi.
Ci salutiamo su una spiaggia a est di Nizza, poco prima del promontorio che la separa da Villefranche. È il pomeriggio
di una bella giornata di marzo. L’acqua è ancora fredda, ma anche questa volta Guillaume non vede l’ora di muoversi. Lo lasciamo in spiaggia. Si cambia velocemente ed entra in acqua. Maschera, boccaglio e costume.
«È fredda, lo so, dice sorridendo, ma mi fa stare benissimo!».