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Incompreso
Non so se ricordate quel film strappalacrime degli anni Sessanta che si intitolava “Incompreso”. Magari i più giovani non lo hanno visto e, a loro uso, dico che parlava di un figlio di cui il padre non capiva e non apprezzava le qualità. Se al posto del figlio mettiamo il pescatore subacqueo e al posto del padre mettiamo la società civile abbiamo una similitudine che, purtroppo, funziona a meraviglia.
Magari per chi nasce in alcune località di mare in cui c’è una grande cultura della subacquea può essere (leggermente) più facile. Ma vi assicuro che per chi nasce a Roma, a Milano, a Bologna, a Firenze (eccetera, eccetera) è davvero durissima.
Si comincia fin da bambini quando il piccolo pescatore subacqueo si aggira tutto il giorno sugli scogli con un bastone con legata in cima una forchetta da tavola. Le urla della mamma per farlo uscire dall’acqua con le labbra blu e le mani “cotte” non mancano mai. All’inizio la famiglia ha l’impressione che il piccolo sia un gradevole eccentrico, ma il passaggio dalla simpatia al fastidio è molto rapido. Sorrisi di circostanza accompagnano le “catture” che vengono consegnate con molto orgoglio alla mamma. Poi tutto viene buttato in qualche secchio della spazzatura strada facendo, pensando che il piccolo sia distratto (come poco conoscono un pescatore) e provocando una grande delusione in un bambino sub che sperava di essere celebrato e coperto di elogi mentre i suoi piccoli cannolicchi mezzi rotti venivano portati a tavola su un piatto d’argento. Di me stesso, che non avevo ne pinne ne maschera (eravamo negli anni sessanta e su una spiaggia adriatica non c’era molta cultura subacquea…), mi ricordo l’acqua salata nel naso, il bruciore degli occhi e quelle immagini sfocate del fondale sabbioso in cui intravedevo appena il profilo di una stella o il buchetto di un cannolicchio. E sognavo sempre cos’altro avrei potuto vedere e vivere in quel mondo misterioso, più bello del più formidabile film di avventure. Mi ricordo il mio primo cefalo di 350 grammi catturato con la fiocina in una sorta di laguna salmastra (povera bestia non aveva scampo in quel poco spazio). Pretesi che fosse portato all’albergo per cucinarlo e insistetti per consegnarlo personalmente al cuoco. Poi la sera non lo vidi arrivare a tavola (chissà se lo avevano perso o buttato). Mi “vendettero” la storiella che era stato messo nella zuppa di pesce che quella sera era nel Menu (e io me la bevetti, orgoglioso che tutti ne mangiassero un pezzo).
Se c’è una cosa della gente comune (di cui fanno parte tanti parenti e amici) che costituisce una continua frustrazione è la totale incomprensione della fatica e dell’orgoglio delle catture.
Quando a pinne si esce sulla costa in estate con un pesce in cintura veramente bello, la gente si avvicina e chiede. Sembra quasi che rendano il giusto merito al sacrificio e all’impegno. Alcuni pescasub che hanno un carattere più impermeabile del mio riescono ad ignorare il fatto che si tratti di un’attenzione transitoria/superficiale e raccontano tutta la storia della cattura per filo e per segno. Ma io, invece, quasi tutte le volte, mi sento cadere le braccia e mi zittisco dopo pochissimi istanti (anzi da molti anni cerco sempre di tirare dritto il più possibile per quanto educazione consenta). Infatti già le solite inevitabili domande iniziali: “vai con le bombole?”, “quanto vai profondo?”, “quanti minuti stai sotto”, mi fanno venire il “latte alla ginocchia” (dico ginocchia per non nominare un’altra parte del corpo). E poi quando, superato il fuoco delle domande sceme che sembrano quasi programmate come in dei robot, si giunge finalmente alla spiegazione della cattura subito si cominciano a vedere solo due tipi di espressioni (a) totale incomprensione (ma cosa sta dicendo questo?) e (b) noia mortale e distrazione (si vede proprio che stanno già pensando alla granita del bar e sono pentiti di essersi fermati a parlare con questo eccentrico matto che dice cose strane e noiose). SI comportano così perché, dopo pochi istanti, il diversivo del pesce visto è già finito e quell’orata di tre chili catturata in apnea che è un qualcosa di difficilissimo che richiede una vita di tentativi e di sacrifici per acquistare un adeguata cultura del mare, viene considerata alla stessa stregua del biliardino del bar, o della partitina a beach volley (per loro sono tutti diversivi della spiaggia e basta).
E il fatto che non abbiano idea di cosa sia tutta quell’acqua che sta davanti alla “loro” spiaggia si vede bene quando vanno per mare con qualche imbarcazione a motore. E si! Perché la spiaggia è noiosa e bisogna fare qualcosa di diverso. E come deve fare un bravo bagnante a scegliere cosa fare? Ma è ovvio, facendo quello che fanno tutti gli altri, e soprattutto quelli più ricchi e più belli, quelli che si sanno divertire. Infatti quasi tutti questi belli e invidiati hanno una barca e allora anche i nostri bagnanti si procureranno una barca, gommone, barchetta o bagnarola. Ma per andare dove e per fare cosa ci penseranno dopo. Intanto la comprano e fanno tutti i documenti del caso. E questo avviene per gusci di noce allo stesso modo in cui avviene per motoscafi d’altura che assomigliano molto a vere e proprie navi. Pensate che la maggior parte di quelli che possiedono un’imbarcazione (sottolineo “la maggior parte”) non sanno cosa farne al punto che in estate escono dai porti e dalle rade e, come pecore, tutti insieme seguono le stesse rotte e vano ad ancorarsi in rada negli stessi punti, anche se sono punti insignificanti e anche se tutta questa loro attività non ha nessun senso. Ad esempio da noi nel Lazio nord di sabato o di domenica d’estate le barche che escono dal porto di Riva di Traiano vanno, tutte insieme, ad ancorarsi in rada in due o tre punti ben definiti, dei quali il principale e “baia di ponente”. Tra le undici e mezzogiorno di una domenica di luglio, per quanto sono fitte le barche ancorate, sembra quasi che l’intero porto di Riva di Traiano si sia ricostituito in rada davanti alla baia di ponente. Ma cosa stanno facendo? Mistero. La baia di ponente si raggiunge molto agevolmente da terra, dove tra l’altro è situato l’omonimo stabilimento. Volendo farsi il bagno dove sono ancorate le barche non c’è bisogno di un motore da sessanta cavalli, bastano due gambe o magari un paio di pinne, o al massimo una canoa o un canotto. Ma il problema non è il mezzo di locomozione il problema è culturale. Questi che abbiamo chiamato bagnanti, ma che forse potremmo chiamare “the others” oppure “i mutanti” come li chiama Dapiran, pensano che il mare sia come una vasca con la finta spiaggia del parco acquatico (solo più grande) e, quindi, si comportano di conseguenza, prestando attenzione solo agli aspetti più grossolani: sgasate in planata, moto d’acqua, e pedalò con lo scivolo per i tuffi. Roba molto superficiale e, infatti, dopo pochi minuti di ogni nuova “attrazione” si annoiano e vogliono comprare un motoscafo più grande con qualche giocattolo tecnico in più, così almeno faranno crepare gli amici di invidia. Mentre noi sappiamo che il mare non è una vasca ma un mondo a parte. Un mondo magico, stupefacente, magnifico e avventuroso e, fin da bambini, lo abbiamo imparato. E basta indossare una piccola maschera per ammirarlo e cominciare a studiarlo nelle sue infinite varianti anche in pochi decimetri d’acqua. Mi ricordo che da bambino, quando, finalmente, riuscii a procurarmi una maschera, passavo delle ore steso sopra un metro d’acqua ad osservare la vita delle piccola fossate di grotto. Piccole zone d’acqua dove si svolgevano combattimenti furiosi con protagonisti granchi attrezzati con armature degne di un cavaliere medioevale, con avversari come piccoli polpi e bavose e ghiozzi e scorfani e tanti altri attori; il tutto finché, da un buco più profondo, usciva la testa di una murenotta e metteva tutti d’accordo. Non mi bastano le parole per descrivere tutto quello che si può vedere anche solo in una pozza d’acqua staccatasi per la bassa marea, ma non devo dirlo a voi che lo sapete bene quanto me.
Loro invece, “the others” non ne sanno niente e nemmeno vogliono saperlo, sempre intenti ad imitarsi tra di loro e sempre alla ricerca di qualcosa di superficiale da fare subito per fuggire a quella noia che sembra non abbandonarli mai.
Per questo, quando viene l’estate, ci sfrecciano sopra ignorando il nostro pallone. E quando ci vedono non capiscono proprio chi siamo e cosa stiamo facendo ma di una cosa sono certi: loro “the others” stanno facendo quello che fanno tutti gli altri (il gregge delle pecore della transumanza nautica) e quindi dobbiamo per forza essere noi dalla parte del torto. Cosa stiamo facendo sulla loro strada? Possibile che non vediamo che il mare è solo una strada per le barche dove loro stanno circolando per andare a fare il bagno da una spiaggia all’altra? Possibile che non capiamo che il posto dei bagnanti è sulla spiaggia dove si stanno recando anche loro? Ma i pesci? Beh, secondo la loro convinzione i pesci stanno solo sul bancone al mercato oppure nei documentari del National geographic o di linea blu, ovvero all’acquario di Genova (dove io non ci posso nemmeno entrare perché vedere tutti quei pesci che nuotano nevrotici e impazziti per la prigionia mi fa sentire male).
E allora ci urlano i loro insulti perché stiamo protestando perché ci stavano per ammazzare (e scusate se è poco). Dicono la prima cosa che gli viene in mente, sentita nelle chiacchiere allo stabilimento balneare. Negli anni ne ho fatta una certa collezione. Uno mi ha detto che dovevo stare proprio sotto la boa. Un altro che non potevo stare così al largo. E quasi tutti sottolineano, urlando con rabbia, che la boa non l’hanno colpita con la barca, perché pensano che il loro solo obbligo sia quello di non centrare la boa. Ma pensano qualcosa? E allora la nostra amarezza è grande e reagiamo male. Anche perché poi – quando meno ce lo aspettiamo – ci ritroviamo alcuni di questi personaggi che ci criticano perché ammazziamo i pesci. Sembra incredibile ma è così. E come può succedere? E’ semplice. Esiste tutto un business di moda legato ad un certo tipo di Diving (non tutti sono così) che ha tutto l’interesse a creare un finto e inventato nemico del mare. E il pescatore subacqueo è la vittima ideale per impersonare questo ruolo del cattivo inventato. Infatti, normalmente, chi è il proprietario di questo genere di Diving? E’ un personaggio locale che è legato direttamente o indirettamente (per parentela) a coloro che nella sua località di mare praticano in modo industriale (sottolineo industriale) i metodi di pesca di distruzione di massa che devastano il mare come lo strascico o il cianciolo. E – pensateci bene – in fondo al gestore di questo tipo di Diving che gliene frega se il mare è distrutto? A lui interessa solo che ci sia quell’unica cernia ammaestrata (e pasturata) che serve per farla vedere a quelle persone annoiate (the others) di cui sopra che fanno il loro corso di tre giorni di bombole per poi tornare in ufficio e dire davanti alla macchina del caffè che sono dei subacquei (salvo poi non non saper distinguere una perchia da un dentice). Tutto questo mentre le associazioni ambientaliste che dovrebbero combattere in prima linea per far cessare le attività di pesca distruttive, che mettono in forse la sopravvivenza stessa dell’ecosistema marino, si guardano bene dal mettersi contro le potenti consorterie della pesca industriale e perseguono un loro business, che si basa su qualche bella storia sentimentale (di grande scena) legata ai delfini, alle balene e agli squali (secondo una certa pseudocultura da documentario sembra che in mare ci siano solo queste specie di animali). Ma nella realtà gli adepti di questa sottocultura speciosa mandano i loro contributi economici ad associazioni che non fanno niente di utile, perché ammesso anche che operino qualche attività concreta (cosa tutta da dimostrare), il tema dei delfini e delle balene è proprio l’ultimo dei problemi del mare. Infatti in un momento in cui la pressione venatoria (per non parlare dell’inquinamento) sta mettendo in forse addirittura la sopravvivenza delle specie che sono alla base della catena alimentare, parlare di balene, delfini e squali è francamente ridicolo. Sarebbe come riparare prima il tetto quando stanno crollando i pilastri portanti.
Ma tutti (the others) se ne fregano perché ognuna di queste categorie fa i suoi interessi e c’è solo un personaggio che è davvero preoccupato della salute del mare. E questo personaggio è l’umile pescatore subacqueo. Proprio colui che è ingiustamente accusato di distruggere il mare ed è – invece – l’unico che, solitario e misconosciuto, si sta battendo per la salvezza dell’ecosistema marino e vive in ansia pensando a questo problema, di cui tutti se ne sbattono. Per essere sincero non tutti i pescatori subacquei sono persone così belle, ma ce ne sono molti anzi moltissimi. Mentre, nelle altre categorie che ho citato, nessuno è così.
Il pescatore subacqueo è “l’incompreso”. Uno che ama e ce la mette tutta ma non viene apprezzato, non c’è niente da fare.
Gherardo Zei