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L’aquila di mare e altre storie…
Pescando nella risacca può capitare che un cormorano piombi dall’alto e che s’immerga in picchiata davanti a noi, provocando una piccola esplosione di schiuma. Se una cosa del genere non vi è mai accaduta, provate ad andare a pesca spesso in schiuma e vedrete che, prima o poi, vi succederà. Come fenomeno non è strano, perché è logico che il cormorano si lanci nel fitto della mangianza e, contemporaneamente, è normale che anche il pescatore in apnea, dal basso, traguardi i punti con la mangianza più densa nella speranza di sorprendere un pescione in caccia che, a sua volta, potrebbe avvicinarsi ai pesciolini per catturarli. Insomma sembra quasi che, in un modo o nell’altro, tutti ce l’abbiano con questa povera mangianza. Il cormorano che piomba davanti a noi normalmente ci fa prendere un mezzo accidente, perché cade in acqua come se un ciclope arrabbiato ci avesse lanciato una gigantesca sassata, mancandoci di poco. Poi, superata la sorpresa iniziale, la mente del pescatore cerca di classificare questo strano essere che nuota non di molto sotto la superficie del mare. La testa con il lungo collo ondeggia spasmodicamente in avanti e il corpo tozzo e corto avanza a sbalzelloni, spinto da potenti remate delle ali. Insomma il nostro data base cerebrale dei pesci si esaurisce subito con esito negativo e, quindi, dopo un timido tentativo di classificare l’animale come polpo o grongo, ecco che finalmente la mente del povero pescatore si illumina: diamine è un cormorano! La prima volta che capita si rimane affascinati e poi, malauguratamente, ci si abitua un po’, ed è triste pensare che ci si possa abituare anche alle cose più belle, ma purtroppo è la verità.
Di recente con un cormorano abbiamo fatto un “numero” molto divertente. Questa volta il tuffo del pennuto non mi ha spaventato perché si era lanciato in acqua abbastanza lontano da me. Praticamente mi è transitato davanti al fucile per tutto il mio campo visivo da destra verso sinistra, disperdendo la mangianza davanti a me. Poi giunto, al limite del mio campo visivo verso sinistra, ha virato ritornando verso di me e, una volta arrivato all’altezza della mia spalla sinistra, si è fermato al mio fianco. Pensavo: “adesso voglio proprio vedere cosa vuole fare questo uccello bizzarro”. Insomma per quattro o cinque secondi il pennuto si è fermato all’aspetto accanto a me in parallelo ma in direzione opposta, cioè verso le mie pinne. Sembravamo due samurai che, guardandosi le spalle l’altro, si difendono da un attacco concentrico dei nemici. Mi ricordo di aver pensato sul momento che avrei desiderato tanto poter rimirare la scena dall’alto: sarebbe stato bellissimo vedere questa strana coppia formata da un mammifero e un uccello, entrambi schiacciati verso il fondo, proprio in mezzo all’anello di salpette e castagnole che ci roteavano intorno, come una nuvola fatta di creature viventi. Uno spettacolo. Ma io, naturalmente, non guardavo i pesci, bensì il cormorano a mio fianco. Non ne avevo mai visto uno intento nelle sue attività naturali così da vicino. La cosa impressionante era l’intensità dello sguardo con cui scrutava alle mie spalle. Di solito gli uccelli hanno un’espressione abbastanza stupida e vuota. Ma il cormorano in caccia no. Guardava con una intensità e un’attenzione che davano l’idea di una grande concentrazione. Ma non feci in tempo a formulare questo pensiero che tutto finì e il cormorano scattò improvvisamente sulla sua destra inseguendo un piccolo sarago fasciato (che probabilmente era stato l’oggetto di tanta attenzione). Dava colpi d’ala e ad ognuno faceva seguire una brusca estensione del collo con la quale cercava di ghermire il saraghetto con il becco. Inutilmente tentò per tre volte, e sempre il piccolo fasciato riuscii a sfuggirgli accelerando e poi, infine, il cormorano si lasciò andare verso la superficie.
Il polpo che “visse” due volte
Capita di catturare un polpo grande (intendo superiore ai due o tre chili di peso), sorprendendolo mentre è intento a cibarsi di un suo simile molto più piccolo. Si, è vero, i polpi sono intelligenti e hanno un aspetto timido, ma, evidentemente, quando hanno fame non vanno tanto per il sottile. Negli anni mi è successo tante volte di catturare polpi cannibali. In alcuni casi il polpo vittima era ancora perfettamente vitale ed è schizzato via lanciando nuvole d’inchiostro e facendomi spaventare. In tanti altri casi (la maggior parte) il piccolo polpo era già morto e più o meno mutilato. Ma la settimana scorsa ho incontrato il piccolo polpo che “visse due volte”, e forse è stato il più fortunato pesce da me mai incontrato in tutta la mia vita. E devo dire che la sua storia mi ha commosso un po’.
Insomma, per farla breve, avevo incrociato questo grosso polpo di circa quattro chili mentre transitava fuori tana e l’avevo sollevato dal fondo portandomelo in superficie. Mentre cercavo di venire a capo della sua resistenza, facendo la solita ginnastica che si fa in questi casi (perché un polpone di quattro chili è davvero forte un bel po’), improvvisamente cadde verso il fondo il corpo inerte di un polpetto da me stimato sui quattrocento grammi e che mi pareva morto senza dubbio, visto che precipitava ondeggiando a foglia morta e aveva un colore piuttosto sbiancato. Non me ne curai più di tanto e continui la mia azione finalizzata a vincere la resistenza del polpone. Dopo qualche minuto in cui avevo dovuto fronteggiare il solito tentativo del grosso cefalopode di salirmi lungo il braccio per raggiungere un punto della schiena dove io non potessi più afferrarlo (così fanno i polpi grossi dimostrando in tal modo tutta la loro intelligenza), riuscii finalmente ad aver ragione della mia preda e nuotai indolentemente verso il pallone per metterla al chiodo. Tutto questo discorso solo per dire che da quando avevo visto precipitare il piccolo polpo morto verso il fondo erano passati parecchi minuti.
Mi ricordai di lui e decisi di sommozzare per cercarlo. Se era morto da poco forse potevo recuperarlo (mi dispiace che un animale marino muoia inutilizzato). Quale sorpresa la mia quando, arrivato sul fondo, vidi che si stava riprendendo. Aveva riacquistato un po’ di colore, anche se, purtroppo, la parte sinistra sembrava paralizzata. Guardai la “manica a vento” della respirazione: stava effettivamente respirando, quindi era vivo. In effetti questa sua “resurrezione” non era poi così strana. Infatti i grandi polpi uccidono i piccoli soffocandoli con i tentacoli nell’apparato respiratorio. In questo caso ero arrivato in tempo prima che la vittima morisse, ma forse il piccolo polpo aveva subito un danno neurologico a causa del prolungato periodo senza respirare (mi chiesi se poteva essere un danno provvisorio oppure una paralisi permanente). Scattò qualcosa dentro di me. Non so perché, ma ero molto preoccupato per la salute di quel piccolo polpo.
Ancorai fucile e pallone e mi accinsi a dedicarmi interamente a verificare il suo stato di salute. In sommozzate successive mi posi accanto a lui cercando di ventilarlo agitando le mani in prossimità del suo apparato respiratorio. Che sia stato merito mio o semplicemente un fatto naturale, di li a poco, anche i tentacoli della parte sinistra cominciarono a riprendersi e tutte le volte che gli andavo troppo vicino il piccolo polpo cominciava a schizzarmi l’inchiostro (buon segno). Ogni volta che poneva in essere questa sua strategia difensiva, io fingevo di disorientarmi e mi allontanavo (non volevo stressarlo ulteriormente). Poi, da lontano, impugnando un lungo filo di posidonia, cercavo di stimolargli il tentacolo inerte, per tentare di capire se era totalmente paralizzato o se c’erano ancora speranze. E con mia grande gioia potei constatare che, al contatto con l’alga, muoveva leggermente la punta e afferrava lo stelo con le ventose, sia pure molto debolmente. Piano piano io e il mio “assistito” nel corso delle nostre attività “terapeutiche” ci spostavamo verso un gruppo di massi e, infine, giungemmo in prossimità di una bella spacca in cui il piccolo polpo si appoggiò, facendone una tana provvisoria. Guardai l’orologio, eravamo stati insieme per più di mezz’ora e mi sembrava che si stesse rimettendo in forze sempre meglio, ero contento come un ragazzino. Andai a scegliere un paio di sassi della dimensione giusta per mimetizzare bene la sua presenza nella tana provvisoria, non volevo che avesse grane fino a quando non fosse riuscito a recuperare bene tutte le sue energie. Al mio ritorno lo trovai che aveva assunto una posizione completamente naturale con la sacca dietro, i tentacoli ai lati e gli occhi verso l’esterno. Mi sembrava vigile e anche più tranquillo. Era come se avesse capito che io ero un animale pazzo e aggressivo di sicuro ma – per qualche ragione incomprensibile – per lui non ero pericoloso. Dunque si lasciò nascondere con i sassi senza mostrare la benché minima reazione e poi risalii verso la superficie per l’ultima volta. Non ci saremmo mai più incontrati. Buona fortuna, amico mio.
Quell’aquila di mare
Per la mia proverbiale paura dei motoscafi di solito pesco molto vicino a terra. Ma nella mia lista di posti preferiti ce ne sono un paio che richiedono di pinneggiare dritti verso il largo per un buon mezzo miglio. E proprio in uno di questi due posti mi trovavo quando avvenne l’incontro.
C’erano quattro metri di visibilità e la prospettiva era quella di cercare di catturare un’orata. Avevo visto un bell’esemplare che passava in alto ma non mi aveva degnato di attenzione, salvo poi fuggire precipitosamente al mio minimo tentativo di agguato. Purtroppo c’era un taglio freddo sui cinque metri che faceva stare il pesce alto nella fascia calda. Per questo mi appostavo sulle creste e traguardavo in alto, sperando nel sopraggiungere di qualche pesce di taglia, in transizione negli strati superficiali. Com’è logico e normale, dopo qualche decina di secondi di attesa, giravo la testa per cercare a giro d’orizzonte qualche dettaglio che mi “parlasse” consentendomi di interpretare meglio la situazione. Quante volte sarà capitato anche a voi, in casi del genere, di cercare di interpretare il significato delle ombre al limite di visibilità. Guardare quel pezzo d’alga alla deriva che sembra per un attimo essere un muso, osservare quelle due salpe accoppiate che, messe insieme, sembrano un’orata, scrutare quell’ondeggiare di posidonia che per un attimo appare come se fosse una grossa corvina sinuosa. Scorsi qualcosa di particolare alla mia destra e cercai di concentrare lo sguardo per un lunghissimo secondo. Sembrava la pinna di un subacqueo che stesse nuotando in parallelo alla mia posizione. Era di sicuro qualcosa di grosso e di vivo, ma pareva molto più un subacqueo che un pesce. Fossi stato un novellino alle prime armi avrei fatto forse la cosa più giusta e, cioè, mi sarei limitato a staccarmi dal fondo nuotando verso quella “cosa” per capire di cosa si trattasse. Ma quasi quarant’anni di pesca subacquea hanno determinato in me il riflesso condizionato per il quale non bisogna mai muoversi prima di avere capito bene la situazione. Nella pesca in apnea, infatti, il movimento è una cosa in generale da effettuare solo dopo aver fatto una chiara scelta motivata. In caso contrario è sempre meglio rimanere fermi, guardare e pensare. E così rimasi fermo a pensare e cercai di guardare ancora meglio di quanto non avessi fatto un attimo prima. Di nuovo vidi il movimento della “pinna del subacqueo” più o meno nello stesso punto e, questa seconda volta, scorsi anche un qualcosa di dritto e sottile come un filo o uno stecco. A questo punto la mia povera mente stava facendo sforzi sovrumani per “classificare” quell’avvistamento e, pertanto, in un modo o nell’altro, cercò di offrire il suo responso. Secondo quel poco che avevo visto poteva essere un pescatore subacqueo senza pallone che, forse, stava passando accanto al nylon (il filo o stecco dell’immagine) del mio pallone che avevo ancorato nelle vicinanze. Risalii in superficie un po’ irritato verso questo pescatore subacqueo senza pallone che mi era venuto a pescare quasi addosso. Ma in superficie potei subito constatare, come prima cosa, che il mio pallone era effettivamente ancorato ma da tutt’altra parte. Inoltre il mare era piatto come una tavola e, a perdita d’occhio, non si vedeva nessuno. Ero in mezzo al mare da solo e non c’era nessun subacqueo senza pallone. Aspettai qualche minuto per sicurezza, ma davvero non c’era nessuno. Dunque chissà cosa avevo visto? Non che fossi preoccupato ma, come standard di sicurezza, andai ad appendere al pallone i pesci che avevo in cintura. Poi ci riflettei seriamente. Il movimento che avevo visto non era quello della coda di un pesce. E pensai ad un Razza o ad un Trigone che forse si stesse allontanando da me. Forse io avevo visto solo una delle due ali che si allontanava e mi sembrava quindi una pinna di un subacqueo di profilo che pinneggiasse sempre sullo stesso posto. E il filo o stecco poteva essere una fugace visione della coda con il suo rostro. Certo doveva essere un animale veramente enorme.
La sera postai in internet tutta la storia del mio avvistamento raccogliendo, come sempre in questi casi, una congerie di pareri molto differenti tra di loro. Ma poi un amico mi scrisse raccontando che in un posto molto noto, in una secca davanti alla foce di un fiume, quello stesso giorno era stata avvistata una gigantesca aquila di mare, a suo dire lunga due metri senza tenere conto del rostro. Il sub che l’aveva individuata l’aveva seguita per quasi mezz’ora prima di perderla di vista. Il posto di cui parlava il mio amico era a pochi chilometri da dove ero stato io. Forse erano arrivate a terra le aquile di mare e proprio accanto a me ne era passata una gigantesca. Chissà se anche lei si era accorta di essere transitata accanto a qualcosa di strano. D’improvviso il mio pensiero andò alla “mia” aquila di mare: chissà dov’era e a cosa stava pensando adesso e dove stava nuotando? Forse, dopo il nostro fugace incontro, aveva ripreso di nuovo il mare aperto e stava incrociando parecchie decine di miglia al largo, tra la costa laziale e la sardegna. E quella notte davanti al mio computer, nella mia piccola stanza, nel mio brutto palazzo, nella triste periferia della capitale, in mezzo ad un mare di cemento e di luci artificiali, mi sentii anche io come se fossi insieme alla mia aquila di mare e, nella mia immaginazione, volavamo liberi tra le onde del tirreno notturno, buio come la pece. Forse incontrandoci ci eravamo scambiati un pezzetto delle nostre anime, o almeno così mi piaceva credere.