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Licenza sì, licenza no?
Se ne parla da anni e da anni c’è chi è favorevole e chi, invece, è contrario. Abbiamo incontrato Marco Mainardi, titolare di un noto negozio a Milano, che ha voluto esprimere qualche idea a proposito. Una base di partenza per poter intavolare una discussione a più ampio respiro tra tutte le parti interessate
Licenza sì, licenza no?
L’eterno dilemma tra chi sarebbe favorevole a una sua introduzione e chi, invece, preferirebbe che tutto rimanesse come adesso. Ne abbiamo parlato con uno dei principali negozianti di Milano: Marco Mainardi.
In Italia c’è una spaccatura tra le due “scuole di pensiero”. Cosa ne pensi?
«Sono contrario come credo il 99 per cento di noi pescatori. Sono infatti molto preoccupato da quello che sta succedendo in questi ultimi tempi. Mi riferisco alle proposte di legge per introdurre una licenza, proposte che solo dopo varie “battaglie” da parte della Fipsas e della Fipia sono state momentaneamente bloccate. I miei timori vengono dal fatto che, in effetti, se andiamo ad analizzare altre attività affini alla nostra, tutte sono regolamentate e, purtroppo, tassate (pesca in acque interne, caccia e raccolta funghi). Un’ulteriore preoccupazione viene da un certo immobilismo del nostro settore. Bisognerebbe effettuare studi e ricerche sull’impatto che potrebbe avere una licenza di pesca, ma non se ne sento nemmeno parlare. E ciò rischia di ricaderci addosso. Provate solo a pensare se mettessero una licenza da 300 euro all’anno? I praticanti diminuirebbero a dir poco della metà».
Quanti sono i praticanti reali è difficile a dirlo. Ci sono statistiche più o meno attendibili e c’è il risultato del censimento. Pensi che se ci si potesse “contare” avremmo più possibilità di far valere le nostre ragioni?
«Questo è sicuro. Come ben sappiamo al Governo sono molto interessati ai voti. Quindi, se sapessero effettivamente quanti siamo, secondo me qualche schieramento politico sarebbe ben felice di “aiutarci”. A parte le battute, credo che la nostra categoria sia sottovalutata in almeno due aspetti: a livello di numero di partecipanti e, soprattutto, per quanto riguarda il peso dell’indotto economico che il nostro settore crea. Ho letto che la Comunità Europea ha indetto un bando di 120.000 euro per redigere, in 14 mesi, un documento denominato “Pesca ricreativa e di semi-sussistenza – il suo valore e il suo impatto sugli stock ittici”. Sinceramente mi sembra ridicolo. Prendendo come assunto che un impiegato medio costa all’anno 40.000 euro (Stipendio più contributi), significa che ci potranno lavorare al massimo tre persone senza poter effettuare alcun tipo di trasferta e, quindi, nessuno studio sul campo, con l’inevitabile risultato di avere uno studio non veritiero e di conseguenza potenzialmente dannoso per la nostra categoria».
In Europa serve quasi ovunque un permesso o una licenza. Se venisse introdotta anche in Italia perché pensi che il numero dei praticanti diminuirebbe?
«Semplice. Perché ci sarebbe un balzello in più. Di quanto diminuirebbero è difficile da dire. Dipenderebbe ovviamente dall’importo richiesto e, soprattutto, dalla regolamentazione. Pensiamo solamente se decidessero di paragonarci alla caccia terrestre. Cosa che potrebbe anche avvenire visto che il legislatore in Italia difficilmente studia una normativa ad hoc ma tende spesso a copiare quella più assimilabile. Al di là del costo, che di sicuro sarebbe minore per il semplice fatto che non “potrebbero” chiederci una quota per il ripopolamento, sarebbero comunque le regolamentazioni a penalizzarci fortemente. Basti pensare che a inizio anno bisognerebbe decidere e quindi comunicare in quale zona andremo a cacciare, zone denominate Atc (Ambiti Territoriali di Caccia). Se la zona prescelta corrisponde al comune dove si risiede, non vi è alcun problema, paghi e ne hai sempre diritto. Se, invece, vuoi sceglierne una o più in altri comuni devi far domanda e sperare che ti venga accettata, pagando ovviamente un’ulteriore quota. Provate a pensare in quanti posti diversi andiamo a pescare durante l’anno. Per esempio, io dovrei far domanda ad almeno 5 comuni della Liguria e in più dovrei decidere sempre a inizio anno dove andare in vacanza. Inoltre, e non è cosa da poco, si può andare solo tre giorni a settimana (il martedì e il venerdì sono sempre vietati), per un massimo di 55 giorni l’anno. Praticamente sarebbe la nostra fine.
«Un altro esempio, a me vicino, è nell’ambito della “raccolta funghi” per la quale il legislatore ha dettato poche linee guida demandando tutto alle regioni, alle provincie e ai comuni. Risultato: in Valtellina si sono venute a creare due situazioni completamente diverse. La prima, “diciamo corretta”, dove i comuni si sono accordati per un unico permesso di raccolta valido per tutta l’Alta Valtellina, ma in una valle secondaria questo non è avvenuto e ogni paese ha stabilito il suo permesso: un delirio poiché comprendere all’interno di un bosco dove inizia un comune e dove finisce l’altro è praticamente impossibie».
Nel caso si decidesse di introdurre la licenza, tu come la vedresti? Oppure cosa faresti per cercare di mantenere le cose come stanno?
«Negli anni addietro è sempre stata valida l’idea di non parlare di licenza per evitare che qualcuno ci volesse guadagnare sopra, adesso purtroppo siamo arrivati al punto che il governo ci sta già pensando e quindi, a mio avviso, converrebbe non fare muro, a priori, o continuare a fare richieste solo a nostro favore, anche se spesso più che giustificate. Bisogna cercare di sfruttare questa situazione a nostro vantaggio facendo uno studio serio e presentandoci noi direttamente con le nostre proposte. A mio avviso le vie percorribili sono due. Venendo dal mondo del controllo di gestione, essendo laureato in Economia ma avendo abbandonato per problemi di intolleranza alla cravatta… tempo fa mi è venuta un’idea. Sto cercando di contattare più aziende possibili proponendo a loro di effettuare un Bilancio consolidato di tutte le aziende, dei negozianti e degli artigiani per riuscire a dimostrare al governo quanto pesiamo economicamente. Con questo bilancio si potrebbe quantificare le entrate che lo stato riceve con la nostre attività (IVA, IRPEF, IRAP…) e soprattutto dimostrare che l’introduzione di una licenza porterebbe a una diminuzione fisiologica dei praticanti, con una inevitabile riduzione del fatturato (quindi di tasse) del comparto. Riduzione delle entrate fiscali che non verrebbe certo compensata dall’introduzione della licenza. Se, e ripeto solo se, in questo modo non si riuscisse a bloccare l’arrivo della licenza, dovremmo provare la seconda strada, quella di un’azione propositiva e non del muro contro muro. Partiamo dal comprendere cosa intendo per fare muro e cosa ha portato. È vero che ultimamente non si è più parlato di licenza (momentaneamente e non definitivamente), ma nello stesso tempo abbiamo perso ugualmente perché è stata introdotta una nuova normativa sul “Limite del Pescato”, che è ancora più restrittiva della precedente o, per meglio dire, ancora più complicata. Il Legislatore, infatti, nel comma 11 dell’art. 11 (Sanzioni Amministrative Principali) scrive: “Fermo restando quanto previsto dalla normativa vigente in materia di limitazione di cattura e, fatto salvo il caso in cui tra le catture vi sia un singolo pesce di peso superiore a 5 kg, nel caso in cui il quantitativo totale di prodotto della pesca, raccolto o catturato giornalmente, sia superiore a 5 kg, il pescatore sportivo, ricreativo e subacqueo è soggetto al pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria compresa tra 500 e 5.000 euro”.
«Per spiegarla brevemente, se oggi peschiamo tre pesci da 1.7 Kg siamo immediatamente in sanzione per aver superato di soli 100 gr il limite, però allo stesso tempo possiamo prendere una ricciola da 30 kg e cinque corvine da chilo.
«In questi anni ho visto e sentito di federazioni e, a dire il vero, anche di alcune aziende che hanno provato a far modificare divieti e limitazioni nei nostri confronti, ma purtroppo senza alcun risultato (escludendo ovviamente l’estensione a 100 mt della bandiera segna sub invece dei precedenti 50). Tornando al discorso iniziale, in che modo possiamo utilizzare ciò a “nostro favore”? Semplicemente, si fa per dire, proponendo al governo l’accettazione di un’eventuale licenza, ma che questa venga subordinata all’accettazione di una nostra proposta di regolamentazione dell’intera attività. Alcuni punti che mi vengono adesso in mente, ma che potrebbero e dovrebbero venire approfonditi, possono essere i seguenti:
Il costo della licenza deve essere giusto ma contenuto, e con il divieto tassativo di introdurre ulteriori balzelli da parte delle singole Regioni, Provincie, Comuni. Questo lo reputo uno dei punti fondamentali, anche se di difficile attuazione soprattutto nelle Regioni a Statuto Speciale. Per quanto riguarda il costo, potrei azzardare 30/40 euro all’anno, ma giusto così per dare una risposta.
Introduzione di un Tesserino di pesca per marcare le catture (Per avere uno studio più veritiero sul nostro impatto ittico).
Possibilità di pescare nelle aree C dei parchi, ma con un ulteriore Tesserino di pesca per marcare le catture; tale tesserino deve essere più specifico e limitativo, cioè deve prevedere un numero massimo di pezzi, suddivisi per specie, prelevabili in un anno.
Prendere spunto da quello che fanno i francesi per cercare di limitare la vendita illegale del pescato: l’introduzione dell’obbligo della rimozione del lobo inferiore della pinna caudale, ad esempio.
Diminuzione del limite di divieto di pesca dalla spiagge da 500 a 300 metri e imponendo detto limite solo durante la stagione balneare.
Divieto di pesca durante i periodi di riproduzione, come avviene nella pesca in acque interne (Sarebbe carino se ciò avvenisse anche per i professionisti…).
«Il principio è di presentarsi con una proposta che abbia un senso logico, cioè una proposta nella quale noi siamo disposti a darci delle regole e anche delle limitazioni, però solo a fronte di alcuni vantaggi e, soprattutto, di assicurazioni per il nostro futuro. Per concludere spero che queste mie riflessioni servano da stimolo alle aziende per unirsi e finanziare assieme uno studio di fattibilità per poi redigere una proposta di legge che tuteli i nostri interessi di pescatori e quindi anche il loro futuro come produttori»