(di Gherardo Zei)
Anche la prima volta in cui i nostri occhi s’incontrarono, circa una trentina di anni fa, pensai subito che quel cefalopode elegante, appoggiato sulla moquette d’alga di un grande masso di granito, fosse sicuramente una specie a se stante, rispetto al nostro comune polpo. Le differenze della forma e della livrea erano troppo grandi per lasciarmi dubbi in proposito. Eppure conosco alcuni che non riescono in nessun modo a distinguere la polpessa dal polpo e moltissimi sono convinti che sia la femmina del polpo. Me la ricordo bene quella polpessa, in quel giorno di tre decadi or sono, che mi guardava e si sollevava per intimidirmi con la sua dimensione, facendo diventare le macchie bianche ancora più scintillanti, come tanti occhi magici sul rosso vivo del mantello (un polpo non era di sicuro e nemmeno sembrava). E, infatti, quella che noi chiamiamo comunemente polpessa è una diversa varietà di cefalopode il cui nome scientifico è Octopus Macropus.
Animale dalle abitudini notturne, schivo, e raro in molti dei nostri litorali, la polpessa è stata per molti anni un vero e proprio punto interrogativo nella mia mente e tutte le volte che ne incontravo una provavo uno speciale sentimento di curiosità. Infatti la livrea dai colori particolarmente accesi della polpessa determina un fascino esotico. Il corpo longilineo con tentacoli lunghissimi le conferisce un movimento particolarmente elegante e aggraziato, rispetto al brevilineo e potente polpo. Una specie di pigrizia innata la fa muovere con una lentezza che sul momento sembra alterigia. Ma una cosa in particolare mi ha sempre colpito e incuriosito in una maniera tanto speciale da contribuire in modo determinante, nel tempo, a modificare il mio atteggiamento verso questo animale. Sto parlando della sua apparente debolezza. Non so se avete mai provato ad afferrare una polpessa. Se non vi è ancora mai capitato preparatevi ad una sensazione assolutamente particolare. La polpessa si lascerà afferrare dalla vostre mani con una reazione così debole da sembrare la ritrosia di un’innamorata che finge di voler sfuggire ma che, in realtà, non aspetta altro che di essere ghermita. Una reazione tanto debole che ho sempre stentato a spiegarmela soltanto con la minore potenza muscolare rispetto a quella del polpo. Per alcuni anni, in giornate in cui non trovavo altro, mi è capitato di catturare qualche polpessa. E’ buona da mangiare e in cucina non rende molto meno di un comune polpo; ha tentacoli più sottili e carne leggermente più morbida: tutto qui.
Eppure negli anni era diventato sempre più difficile per me prelevare una polpessa, anche in giornate nere. Era come se provassi un indefinibile sentimento d’imbarazzo tutte le volte in cui mi trovavo a stringere nel pugno quell’animale tanto debole, elegante e misterioso.
Finché, sarà stato forse dieci anni fa, ricordo un giorno di giugno in cui avevo fatto il giro di tutti i sassi senza vedere una coda e, improvvisamente, mi trovai al cospetto di una polpessa sul chilo che mi guardava tra due ciuffi di posidonia. Scesi dritto come una poiana per metterla a cavetto e salvarmi da cappotto. Ma non appena la ebbi tra le mani ci guardammo. La polpessa, come suo solito, praticamente non reagiva alla mia presa e mi guardava con una espressione di altezzosità. Quasi fossi preda di un incantesimo aprii le mani e la lasciai andare; lei si spostò solo di un paio di metri e di nuovo si fermo senza fuggire. Rimanemmo così a guardarci per una ventina di secondi: io fermo sul fondo e lei sollevata sui tentacoli tra un ciuffo di posidonia ed una grossa roccia. Poi finalmente lei ruppe gli indugi. Con un’eleganza inusitata scivolò senza nessuna fretta tra due lame di grotto, scomparendo nel buio del meandro, e fu come se mi avesse detto: “hai capito finalmente, ci hai messo del tempo, non sei tanto sveglio come sembri”. Quella fu l’ultima volta in cui formulai anche solo il pensiero di catturare una polpessa. Una scaramanzia da pescatore tribale stava per entrare a far parte della mia vita. Dopo l’incontro con quella polpessa ero, infatti, quasi arrivato al punto di uscita ma feci ancora due o tre tuffi senza convinzione. Al secondo tuffo un’orata di circa un chilo e mezzo mi venne dritta incontro. Era come se non mi vedesse e fu fermata solo dall’asta del mio ottantacinque che la trafisse dalla testa alla coda.
Ora, io sono una persona molto razionale e ci tengo a ribadire che non credo a niente di soprannaturale ma, tutto al contrario, sono un convinto assertore del metodo scientifico come unica strada per indagare la realtà. Tuttavia, negli ultimi dieci anni, tutte le volte in cui ho incontrato una polpessa mi sono fermato a giocarci e poi è sempre successo qualcosa di positivo nella pescata. Nella parte più illuministica della mia mente continuo a credere che non ci sia niente di magico e che questa piccola superstizione sia niente di più di una specie di divertimento; mentre nella parte più primitiva e tribale della mia anima sono convinto che le polpesse siano delle maghe del mare incarnate in cefalopodi che mi ripagano sempre del mio rispetto. Voi pensate quello che vi pare ma, in entrambi i casi, quello che conta è il grande fascino del mare.
Di nuovo era arrivato giugno. Il giorno prima avevo catturato il primo serra della stagione (3,3 kg.) ed ero tornato nello stesso posto, questa volta con un compagno. Ma tutto era cambiato e in mare non c’era più un pesce. La situazione meteo marina sembrava uguale al giorno precedente, ma semplicemente il pesce era sparito. Niente più cefali, niente più salpette e, quindi, niente più predatori. Dopo quattro ore di fatica stavo rientrando e vedevo, in lontananza, che il mio compagno era già risalito sugli scogli, ma il suo cavetto pendeva vuoto dalla cintura. Stavo nuotando in pochissima acqua, ormai a trenta metri da riva, quando la vidi. Splendida davanti ad una tana si stagliava in tutta la lucentezza dei suoi colori una grossa polpessa, sicuramente non inferiore al chilo e mezzo. Ovviamente non mi passò nemmeno per l’anticamera del cervello l’idea di catturarla. Mi avvicinai e lei si spostò nella tana. Infilai le due mani dentro e la presi delicatamente tra i due palmi come se accarezzassi un fascio di fiori. Lei mi scivolò elegantemente tra le dita senza fare alcuno sforzo e fu come se ci fossimo scambiati una lunga carezza. Nella parte ancestrale della mia mente avevo la convinzione tribale che la “maga polpessa” riuscisse perfino a percepire i miei pensieri di rispetto e di deferenza. I tre tuffi che mi separavano dalla riva mi avrebbero riservato una cattura? Invece nulla. E uscii anche io dal mare senza un pesce. Chiacchierando poi con il mio compagno gli spiegai che effettivamente avevo visto una grossa polpessa ma che non catturavo più da tanti anni quella specie di cefalopode nella convinzione (del tutto irrazionale) che mi portasse fortuna. Ridemmo tutti e due e io conclusi dicendo che ovviamente tutte queste cose sono balle e scaramanzie da pescatori, come, del resto, era appena stato dimostrato.
Dopo qualche giorno tornai di nuovo a pesca nello stesso posto e non per cercare i pesci serra (perché ai pesci serra e alle polpesse non ci pensavo più) ma soltanto perché c’era stata una mareggiata e quello era uno dei pochissimi posti praticabili del litorale. Uscii verso il largo più o meno nella stessa zona da cui ero rientrato la settimana precedente e, già al primo tuffo, mi accorsi dell’aumento della mangianza. Feci un secondo tuffo cercando orientarmi meglio. Al terzo tuffo, finalmente, trovai un gradino con una bella posizione e una splendida copertura, soprattutto sulla sinistra. E fu da sinistra che uscì il branco di serra. Uno spettacolo incredibile. Fu come se avessero proiettato nell’acqua di Santa Marinella un documentario sulle Canarie. Per circa cinquanta centesimi di secondo, il mio sguardo abbracciò un gruppo di circa sette pesci che sembravano tutti lunghi più di un metro e spessi come vocabolari e che mi stavano transitando davanti. Mi chiesi: sono ricciole? No, dalla mandibola, capii che erano decisamente serra. Poi dovetti smettere di ammirare i sette pescioni e dovetti per forza concentrarmi totalmente sul più vicino, che non era certamente il più grande ma che era comunque un pesce di non molto meno di meno di sei chili. Scoccai un tiro sicuro a centro corpo e, poi, per un centesimo di secondo attesi che “cantasse” il mulinello. Ma, al posto del sibilo rassicurante, subii uno strattone incredibile al fucile, che solo per un miracolo non me lo strappò dalle mani. Cosa era successo? “imparruccamento” pensai, mentre istintivamente portavo anche la mano sinistra sul fusto del fucile per tentare di trattenerlo e, contemporaneamente, mi piegavo in avanti per reggere i colpi e cercare di vedere cosa fosse successo. Vidi che una voluta del nylon del calamento si era incastrata nella parte bassa del rocchetto del mulinello (probabilmente dopo il colpo, abbastanza ravvicinato, una circonvoluzione di nylon era rimasta sospesa e la ripartenza del pesce tutta sulla destra l’aveva fatta incagliare sul mulinello). Per un’eterna frazione di secondo mi sentii disorientato: avrei dovuto avere una terza mano per cercare di spostare il nylon dall’incastro (perché le due che avevo erano troppo impegnate a tenere il fucile). Ma non feci in tempo a completare il pensiero che, quasi per miracolo, il nylon cominciò a scivolare lungo il bordo esterno del rocchetto e si liberò dal mulinello, che cominciò a suonare con quel suono che per noi pescatori subacquei è più sublime della più bella musica del mondo. Il pesce era “in sagola a centro corpo” e il mulinello stava facendo il suo dovere, le possibilità di perderlo erano ridotte al minimo.
Avevo avuto una serie di formidabili colpi di fortuna. E fu in quel momento che, inopinatamente, il mio pensiero si estraniò dal contesto della cattura e andò a rievocare l’immagine della polpessa della settimana precedente. Senza più pensare al pesce che stava sfilandomi rapidamente sagola dal mulinello, alzai la testa dall’acqua per guardare le mire, e vidi che mi trovavo quasi esattamente nel punto in cui avevo incontrato la polpessa il sabato precedente. Ci avrei giurato. Non riuscii a impedirmi di sorridere. La mia arcaica intelligenza emotiva tribale prese il sopravvento e non potei fare a meno di immaginare la polpessa, proprio sotto di me, nella sua tana, o grotta magica, dove questa “maga del mare”, incarnata in un cefalopode, sorrideva misteriosa e esercitava il suo potere a favore di chi ad ogni incontro le facesse atto di omaggio e di rispetto.
Gherardo Zei