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Marco Bonfanti: la vera storia delle pinne in carbonio

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Al giorno d’oggi le pinne in carbonio sono uno dei capisaldi dell’attrezzatura del pescatore in apnea. Perfino a me, che ho l’età di matusalemme, sembra quasi che siano esistite da sempre. Figurarsi cosa ne può pensare una pescatore giovane di venti o trenta anni, che si è accostato al nostro sport da pochi mesi o anni. Si parla spesso di “nativi digitali” ma noi abbiamo sicuramente i nostri “nativi con le pinne di carbonio ai piedi”. Tutti questi “nativi” delle attrezzature moderne probabilmente s’immaginano la nascita di oggetti come le mute in liscio spaccato o le pinne in carbonio come un qualcosa di mitologico di cui, tramite la tradizione orale, si raccontano soltanto aneddoti, come fosse una saga leggendaria. Ma in realtà io c’ero e non sono così tanto vecchio.

Per tutte le ragioni che ho appena menzionato, ho pensato di scrivere la vera storia della nascita delle pinne in carbonio e ho approfittato della presenza al Medishow di Roma di Marco Bonfanti per farmela raccontare dalla sua viva voce. Resterete stupiti: ci sono tante cose che non sapevo nemmeno io.

Marco, com’è nata l’idea?

Le pinne in carbonio sono nate un giorno di agosto del 1986. Stavo pescando agli scogli Porcelli di Punta Ala e c’era un leggero maestrale con mare increspato. Scesi sui dieci metri e risalendo sentii un piede leggero. Si era tranciata la pala in plastica e ne avevo persa la metà. Per tentare di “finire” le vacanze mi misi a cercare nei negozi della zona il mio solito modello di pinne (non avevo la riserva). Ma la mie vecchie pinne sembravano introvabili da quelle parti. Morale? Non ho pescato negli ultimi giorni di ferie. Io abito a centinaia di chilometri dal mare e quindi sono tornato a casa con un diavolo per capello.

Allora cosa hai fatto?

Ho pensato subito di autocostruirmi le pale. Io sono un “malato” di tecnica e se vedo un oggetto che m’interessa è imperativo per me capire com’è fatto. Quell’incidente estivo mi aveva portato a focalizzare l’attenzione su com’era fatta la pala. E io in questi casi non riesco a fermami finché non vedo come è precisamente realizzato l’articolo tecnico specifico a cui sto pensando. Contattai, pertanto, la ditta costruttrice e, visto che le pale avevano meno di un anno, me ne mandarono subito un altro paio gratuitamente (furono molto seri commercialmente). A questo punto, con in mano il “modello” delle mie normali pinne, decisi di riprodurle in carbonio. Io lavoravo il carbonio per i telai di biciclette: la mia ditta era nata con questa finalità e siamo stati i primi al mondo a fare telati di carbonio monoscocca per biciclette. Come primo esperimento ho fatto le pinne esattamente lunghe, larghe e inclinate come quelle vecchie in plastica, ma non andavano bene. Il “cambio secco” di materiale si rivelava inefficace, perché il carbonio ha delle caratteristiche meccaniche che lo rendono talmente superiore alla plastica (pensate che il carbonio è resistente 5 volte l’acciaio a parità di peso) che non sono confrontabili e quindi richiedono una struttura del tutto diversa per realizzare – con caratteristiche paragonabili – una pinna in carbonio invece di una pinna in plastica.

Entro fine settembre ero immerso in acqua dolce, nella zona di Lecco alla fine del lago di Como, con il prototipo in prova. Per realizzare quel primo modello mi ero limitato, per il momento, ad affrontare i problemi tecnici relativi all’attrezzatura necessaria allo stampaggio. Ma il prototipo non mi piaceva: la pinna era ancora troppo dura nell’uso e la ragione era che il carico necessario per far lavorare una pinna in carbonio con la stessa dinamica di una pinna in plastica di pari dimensioni è parecchio superiore (quindi le pinne risultavano, giocoforza, troppo impegnative). A fine ottobre di quell’anno avevo già il quarto prototipo, il quale aveva, finalmente, caratteristiche simili al modello in plastica ma con un materiale d’elasticità superiore.

Era giunto il momento di mettere in prova le pinne. Come hai scelto il tester?

Sono cosciente dei miei limiti e quindi pensai di trovare qualche atleta di buon livello. All’epoca ero già amico di Valerio Grassi (che era il fondatore e, al tempo, il titolare della Omer). Andavo spesso da lui a Brescia a comprare i fucili. Gli chiesi – quindi – di far provare le pinne a qualche valido subacqueo, ricevendo una pronta disponibilità: le avrebbe date in prova a qualche atleta del suo Team. A novembre mi recai da lui a Brescia con queste due pale in carbonio in mano (le prime della storia). Gliele consegnai e lui le diede ad un noto atleta di cui non faccio il nome. Dopo un bel po’ tempo mi decisi a chiamare Valerio, perché ero curioso di conoscere l’esito della prova. Ma mi accorsi subito che lui al telefono era in imbarazzo e non sapeva come dirmelo che non c’era stata nessuna prova. Ma alla fine si fece forza e, tra una imprecazione dialettale e l’altra, me lo confessò che, in realtà, l’atleta in questione aveva pensato che il materiale fosse troppo nuovo e inaffidabile, al punto che non aveva ritenuto di “perdere tempo di pesca” con qualcosa che non gli dava fiducia e aveva restituito il materiale senza provarlo. A questo punto anche Valerio mi restituì le pale ancora intatte. Era stato un inizio davvero poco promettente.

E poi cosa è successo?

E’ successo che ormai era trascorso tanto tempo: eravamo nella primavera del 1989. Nel frattempo quelle pale io le avevo provate abbondantemente e, anche se il carico di flessione era simile al modello in plastica, mi sembrano ancora un po’ troppo dure e faticavo a capire il perché, finché mi sono detto che la ragione stava nel fatto che, con il carbonio, il lavoro della pala non ha una fase morta, perché la restituzione è molto più veloce: dovevo quindi lavorare per creare una pala ancora più morbida (ma avevo poco tempo perché ero impegnato con le biciclette). A questo punto decisi di insistere nel cercare un tester di livello, per avere dei seri riscontri oggettivi e così ritornai da Valerio: era appunto la primavera del 1989. Ricordo che era un venerdì e mi ero preso una mezza giornata libera. Valerio mi chiese scusa per il “precedente” imbarazzante del suo atleta che non aveva creduto nel progetto e mi disse: “Ne ho un altro, è un ingegnere che sta in Sardegna ma non so se può essere la persona adatta. Ma, ripensandoci, ho la persona giusta per il test. E’ venuto qui da me mercoledì scorso, è un ragazzo che vuole fare i record di apnea e battere Pipin. Allora domandai: “ma dove sta questo ragazzo?”. “A Busto Arsizio” fu la risposta. “Ma che diamine” replicai io “Ma sta proprio sulle montagne, dove diavolo vuoi che le vada a provare le pinne?”. “No no, da qualche parte andrà. “El me sembra bravo” concluse Valerio. “Vabbé tu sei l’esperto” accettai “Allora diamo a lui le pinne da provare. A proposito come si chiama?”. “Non mi ricordo replicò Valerio, aspetta che vado a vedere”. Si alzò, andò alla scrivania, prese un foglietto e lesse il nome: “Umberto Pelizzari”.

Storia fantastica. E poi cosa è successo?

Abbiamo dato le pinne a Umberto che cominciò subito a provarle Era all’Isola D’Elba con il suo allenatore Massimo Giudicelli. Telefonai a Massimo Giudicelli e gli chiesi: “come vanno le pale?”. Mi rispose che Umberto con quelle pinne aveva fatto il primo tuffo a cinquanta metri (all’epoca il record del mondo era quarantotto metri). Da quel momento iniziò la collaborazione a tre per lo sviluppo della pala in carbonio per i record di apnea tra me ( n.d.r. Marco Bonfanti), Giudicelli e Pelizzari. Quindi, fu quasi per caso che la sperimentazione nacque dal punto di vista dei record di apnea anziché da quello dei pescatori in apnea (tutto per quell’atleta famoso che non ci credette o almeno così disse Valerio). Io comunque ero contentissimo di fare questo lavoro per i record, pensavo: “ma quando mai mi ricapiterà di partecipare ad una cosa così, come un record del mondo ?” .

Raccontaci qualche record…

A partire dal 1991 sono stati moltissimi. Umberto era una macchina da record, si presentò all’Elba e in quindici giorni stabilì i nuovi primati di assetto costante, variabile e variabile no limits con le nostre pinne (all’epoca marcate Sporasub il suo sponsor). Le pale dell’aspetto costante erano di un verdino fluorescente. Per ottenere maggiore visibilità per ragioni di sicurezza si decise, infatti, di colorare le pinne e io gli diedi un pigmento fluorescente verdino mentre quelle del variabile Giudicelli le aveva colorate in arancio.

In parallelo a questa collaborazione per i record con Umberto Pelizzari e Giudicelli, che è continuata per tutti i record in assetto costante di Umberto, abbiamo valutato la possibilità di dare uno sviluppo commerciale al prodotto e, insieme alla Omer, lo lanciammo sul mercato. In effetti all’epoca non avevo tempo per una produzione di pinne e non riuscivo ad avviarla in C4, perché non c’erano volumi che la rendessero conveniente. Comunque per attestare la paternità dei miei prodotti stampavo il marchio C4 sulle pale; logo che affiancava il marchio Omer. Del resto ricordo che ho anche pensato che gli uomini Omer le avrebbero sapute vendere, al tempo C4 non aveva nessun canale commerciale nella subacquea. Per quella produzione, Valerio mi chiese d’ applicare un bordino di protezione perché il carbonio “vivo” tagliava. Infatti ricordo che le pinne che usava Umberto in allenamento si erano consumate ai lati sbattendo tra di loro per i tanti chilometri di pinneggiamento. Pertanto applicai questo bordino che non era ancora un water rail, era una semplice protezione sul contorno e il modello di pala era a punta tondeggiante, perché era la forma del vecchio modello di pinne in plastica Spora che al momento Omer vendeva.

Corre voce che per la pesca in apnea hai avuto un altro tester di eccezione

E’ vero. L’estate successiva ero a Punta Ala e Umberto all’Elba. Mi telefonò e mi disse: “grazie delle pinne che mi hai mandato, se fai un salto all’Elba ti presento Renzo Mazzarri e andiamo a pescare a Mezzo Canale”. Degli amici mi accompagnarono in barca e Umberto si presentò all’appuntamento con oltre quattro ore di ritardo (non gliela perdono neanche oggi). Il giorno dopo andammo in mare con Renzo Mazzarri e il suo leggendario barcaiolo “il Topo”. Risalito dopo il primo tuffo Renzo mi disse: “rampano come dù orsi”.

Qualche tempo dopo, al Mondiale di Maiorca (l’ultimo dei tre vinti da Renzo), quattro dei primi cinque classificati indossavano pinne in carbonio. Amengual l’idolo di casa, finì terzo, era l’uomo che secondo tutti i pronostici avrebbe dovuto vincere quel mondiale. Questo ha dimostrato la superiorità in gara delle pinne in carbonio, ne fece parlare tutti gli atleti, dando una forte spinta per la loro diffusione nel mondo della pesca in apnea.

Hai parlato dei “bordini” che sono stati la premessa per la nascita dei “water rail”. Ci racconti?

Nel 1993 a Firenze c’era l’Eudi Show alla Fortezza Da Basso. In quella Fiera ci fu un primo contatto per l’acquisto della Omer da parte della famiglia Ciceri. I Ciceri la presero e decisero subito di mettere a catalogo una pinna in carbonio, non le aveva nessuno la tempo. Credere in tale prodotto fù indubbiamente lungimiranza imprenditoriale. Nell’ambito di quella collaborazione mi venne l’idea di rendere funzionali i bordini laterali che fino a quel momento avevano esclusivamente una funzione di protezione, trasformandoli in delle guide che canalizzassero il flusso, facendo quasi scomparire il fenomeno del derapagé. Una funzione simile alle paratie laterali negli alettoni delle auto da corsa, l’idea mi venne da lì. Infatti, la combinazione del carbonio con i water rail, ha determinato in tutti noi pescatori un cambiamento di pinneggiata che si è trasformata in un movimento molto più lineare e composto.

A questo punto tutti i fattori tecnici di base del prodotto erano messi a punto. E com’è proseguita la storia fino a oggi?

Nel campo dei record di apnea ci sono stati molti anni di quasi monopolio delle pinne in carbonio. Monopolio che è terminato solo con l’avvento del monopinna.

In pratica, anche tutti i competitori di Umberto Pelizzari, che all’epoca era l’assoluto dominatore, hanno usato le pinne in carbonio fino all’avvento del Monopinna. Avvento del monopinna che a sua volta dimostra – comunque – come la prestazione sia fortemente funzione dell’attrezzatura. Mi ricordo tanti episodi di quegli anni. Ad esempio nel 2003 ci fù una gara AIDA e Martin Stepanek in prova aveva problemi alle caviglie nel fare la virata a novanta metri con le pinne in plastica. Un suo amico spagnolo gli prestò le proprie Falcon 40 per vedere se potevano risolvere il problema. Risultato: portò il record del mondo a -93mt (con bipinne) con delle Falcon 40 comprate in negozio, anziché con delle pinne dedicate. Venuto a sapere questa cosa, contattai Martin e mi offrii di produrgli dei prototipi su misura, come avevo fatto per Umberto. Chiesi, pertanto, i dati delle sue prestazioni muscolari e rimasi a bocca aperta scoprendo che aveva prestazioni superiori a quelle di alcuni dei maggiori campioni del ciclismo.

Per quanto riguarda il mondo della pesca in apnea, dopo Renzo Mazzarri, le pinne in carbonio furono adottate da tanti altri, Pedro Carbonell ci vinse un campionato Europeo e poi, via via, gli altri (dovrei forse dire tutti gli altri) campioni e da un grandissimo numero di pescatori appassionati. L’egemonia delle pinne in carbonio è diventata totale e, ovviamente, si sono affacciati al mercato tantissimi altri produttori. Era inevitabile. Qualcuno ha portato rispetto alla storia del prodotto e qualcun altro meno. Anche questo era inevitabile.

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